La Storia

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:: BIOGRAFIA

Michelangelo Vizzini (Grotte [AG], 31 luglio 1920- Messina, 15 maggio 2009) trascorre la giovinezza nel suo paese d’origine, sino a quando viene arruolato nell’esercito italiano, in occasione del secondo conflitto mondiale. Sin da bambino nutre una particolare curiosità per la fotografia, tanto da costruirsi una rudimentale macchina fotografica con una scatola di cartone, con la quale inizia ad immortalare i bellissimi paesaggi della sua terra. Alla fine della guerra si trasferisce a Messina dove intraprende l’ attività di fotoreporter, collaborando sia con i quotidiani locali (Tribuna del Mezzogiorno, Gazzetta del Sud), sia con le più importanti testate nazionali (Panorama, Espresso e altri). Ben presto diviene l’insostituibile fotoreporter degli eventi più importanti della Sicilia, come la rassegna cinematografica di Messina prima e Taormina dopo, la cui partecipazione a tutte le edizioni, sino all’anno prima della sua scomparsa, gli consentirà di essere conosciuto e apprezzato anche fuori dalla sua Isola. Instancabile, sereno, discreto, riesce sempre a rubare l’attimo, cogliendo i minimi particolari in maniera immediata e viva. Sostenitore convinto della fotografia in bianco e nero, riesce, però, ad adattarsi alle più nuove tecnologie nel campo, sino ad accettarne l’attuale digitalizzazione. Per apprezzare sino in fondo l’arte di Michelangelo Vizzini, occorre guardare al di là delle immagini delle sue fotografie, traendone il massimo degli insegnamenti, fra i quali quello di ‘saper vedere’. Il fotoreporter siciliano, infatti, attraverso l’esempio della sua attività, svolta sino alla fine con grande dedizione e passione, lascia oltre che un insegnamento fotografico, una grande lezione di vita, che insegna a non fermarsi mai alla superficie delle cose, ma ad andare oltre le apparenze, alla ricerca del loro intimo e più segreto significato.

Mirko & Gaia Vizzini




:: RICORDO DI MICHELANGELO VIZZINI

“E tu che ci fai qui, Vizzini?…” Domanda scontata, che la sistematica ripetizione aveva regalato da tempo nel dimenticatoio dell’abitudinario quotidiano. Tutt’altro che combattivo dal fronte della conversazione, Mimmo affidava allo sguardo una impareggiabile efficacia discorsiva. Uno sguardo bonario e velatamente ironico, quasi a ricordare l’impronta pirandelliana delle sue origini, in Grotte di Agrigento. E così ci eravamo salutati in ogni incontro, lungo l’arco di un sessantennio vissuto in comunanza di affetto, di sentimenti, di innumerevoli episodi che avevano impreziosito la nostra prolungata amicizia. Ma quella sera a Taormina, in cima alla scalinata che conduceva al sagrato della Chiesa ove era stata allestita la mostra fotografica per onorarne il ricordo, era un po’ diverso. Che mi trovassi al cospetto di Mimmo, non v’era dubbio. Ma si trattava soltanto di una sagoma, straordinariamente identica al “vero” vissuto, che ne ricordava la presenza, fisica ancor più che spirituale, riproponendo uno degli atteggiamenti più significativi della sua vita terrena. Un geniale montaggio fotografico, contornato a misura d’uomo su un supporto di sughero pressato.

…”E che vuole, Professore…” Silenzio, e una scrollata di spalle. Sarà stato questo, o una folata di brezza, a fare oscillare la sua fotocamera, che penzolava con l’immancabile lampeggiatore dalla sinistra del manichino, al quale rimaneva appesa, come sempre, tramite una improbabile bretella. 

“Nanetto”, appena mi fai una fotografia, ti sparo”.

Era una concessione irrispettosa, consentiva a me solo dalla sua eccelsa signorilità, potermi rivolgere a lui con un termine che non avrebbe trovato diritto di asilo nemmeno nel più tollerante prontuario elogiativo nella lingua dei vatussi, o dei titani. Ma in quell’istante, dalla sua camera era scattato un lampo. Esattamente come allora, come prima. Come sempre. Attimo di luce che rinnovava la presenza eterna di questo personaggio straordinario e affascinante. Nella fredda ricostruzione del rapporto spaziotemporale proprio del linguaggio della fisica, era certo che si fosse tratto d’un abbaglio. Ma quel lampo c’era stato: girandomi verso la scalinata, alla ricerca di un eventuale, insistente fuoco d’artificio, proveniente lì sul fondo dal Corso Umberto, altro non vidi, se non una indistinta sequenza di gradini, intervallata qua e la da qualche immagine discreta: la luce dalla finestra di un ritrovo pubblico, una coppia di giovani accovacciata, gruppi isolati di turisti, per lo più stranieri, che si inerpicavano per ammirare anzitempo la mostra, la cui inaugurazione era programmata di li a poco. Ma sopratutto, in quella pausa di contemplazione, rividi, uno per uno, i fotogrammi della trascorsa esaltante esistenza di Michelangelo: sin da quando, negli anni quaranta del secolo scorso, l’adolescente quindicenne la cui genialità era compresa nell’angustia di un paese poverissimo della Sicilia delle miniere e delle saline, scrutava dal buco della serratura per carpire i segreti della fotofrafia, privilegio arcano del sospettoso padrino che nella camera accanto armeggiava sui marchingegni artigianali che rendevano possibile il miracolo ritratto e della istantanea, quando nei paesi il negativo era ancora sul vetro, il diaframma a comando pneumatico azionato a mano, ed il futurista lampo al magnesio impreziosiva l’armamentario di lusso di qualche raro, avveniristico laboratorio. Appena ventenne, il vento della guerra lo aveva scaraventato sui fronti della grecia e della Russia, poi a conoscere le miserie dei campi di prigionia, ove 1o avevano derubato dell’ oggetto più prezioso che Mimmo si portava dietro: la sua attrezzatura di aspirante fotografo. Il modo con il quale l’ aveva creata quella attrezzatura, era il segno premonitore del futuro cammino di quell’autentico Maestro dell’arte della immagine fotografica che è stato per tutti noi MICHELANGELO VIZZINI.

Era l’invenzione prodigiosa di una rudimentale, ma funzionante fotocamera risultante dall’assemblaggio dei più inimmaginabili componenti: uno scatolo di sigari con il foto circolare su una parete; un obiettivo di fortuna, residuo di qualche apparecchio ottico ed adattato a tenuta serrata sul foto dello scatolo; un diaframma di latta, con il sipario temporizzato dal comando a mano; e poi la lastra sensibile, ricavata da un vetro ritagliato sulla misura della camera, quando non era stato possibile rimediare un prezioso spezzone di negativo su pellicola, trafugato da qualche deposito, o rinvenuto fra le macerie di quello che una volta era stato un laboratorio fotografico. E poi la camera oscura per lo sviluppo e la stampa, improvvisata un qualche catapecchia delle retrovie, e che nessun superiore osava rifiutare all’intraprendente soldato della sussistenza. Rientrato dalla pesante quanto formativa esperienza della guerra, Michelangelo operò a Messina per oltre sessanta anni, dalla fine del ’43 sino al 2009. Ed in tutto questo periodo non v’è stato evento, improvviso o programmato, imprevisto od annunciato, che non avesse riscontrato la testimonianza della sua documentazione, sì che qualsiasi fatto senza la sua presenza perdeva il diritto a qualsiasi esistenza a futura memoria. Ubiquitario e diacronico (v’è chi giura di averlo visto in opera in due diversi happening, contemporanei ma distanti chilometri l’uno dall’altro, arrivava sempre al momento giusto per immortalare l’immagine nell’istante più felice per la sua memorizzazione icastica: dal lancio della fiocina del pescatore di spada al fulmine che squarcia il buio della notte in tempesta sullo sfondo della statua del Nettuno; dal salto dell’acrobata alla consegna del premio della rassegna cinematografica internazionale di Taormina; dal taglio del nastro di una qualsiasi inaugurazione alla regale differenza di una capra a passeggio fra le memorie di un sito antico. Insensibile al richiamo di esclusive per le più famose testate dei periodici di mezzo monfo, la sua fissazione rimaneva quella della informazione per i cittadini: per anni si era precipitato, ogni sera, nel frastuono delle stampanti del Notiziario e della Gazzetta per consegnare, appena in tempo per la prima edizione, le immagini preziose degli avvenimenti della giornata. Arrivava sempre all’ultimo minuto. E se per caso (sarà successo due o tre volte nell’arco della sua prolungata attività) era giunto in ritardo, non esitava a far ripetere all’Autorità di turno – si fosse trattato anche del Presidente della Repubblica – il gesto della consegna del premio: e nessuno mai rifiutato, tale era il credito che riscuoteva Vizzini presso i più alti rappresentanti della politica, dello spettacolo, della scienza o dello sport che affollavano il proscenio della notorietà. Il suo sprint sul percorso verso l’attimo felice del clic aveva del prodigioso. Lo ricordiamo tutti, ammirati e un po’ divertiti, quando per immortalare il do di petto del tenore sul palcoscenico del teatro dei dodicimila nell’Agosto messinese degli anni sessanta, non esitava a incedere sulla scena, per giungere a distanza di gomito dall’ esterefatto solista, sì che il suo scatto risultava fatalmente vincente su quelli di tutti gli altri fotografi. Me lo ricordo io, in frangenti della più infrenabile comicità, come quando all’istante del lancio dei paracadutisti dallo SM 81, all’apertura del portellone si slacciava di colpo la cintura di sicurezza per riprendere lo stacco dei piedi del velivolo, gettando nel panico gli atterriti direttori di lancio; o quando negli anni cinquanta me lo portavo dietro ad arrampicarsi sulla ondeggiante scaletta a pioli dei trapezisti della troupe Zemgano nel circo Palmiri, per riprendere i “volanti” dall’alto dello chapiteau, e lui col suo fardello di Rollei ed accessori che gli penzolavano sotto, rassegnato ed imperterrito raggiungeva ansimante il sottilissimo predellino di appoggio dei trapezisti, empiendo di stupore il pubblico ed artisti, performance unica nella storia del pur ricco caleidoscopio dell’arte circense.

E poi il lavoro in camera oscura.

Inconsapevole precursore di quel passaggio fra tradizione e innovazione che già negli anni cinquanta imperversava sulle riviste specialistiche (basti ricordare il notiziario Zeiss, o la italiana Ferraniacolor), non si lasciava impressionare dagli imbonimenti propagandistici che accompagnavano il lancio di ogni nuovo prodotto, con annunci roboanti di chissà quali strepitose novità.  Imperturbabile a tanto frastuono, dissacratore di ogni innovazione, Michelangelo si divertiva a gettarmi nello sconforto disarticolando qualsiasi “ultimo modello” gli portassi al suo magazzino/negozio (l’ultimo, in via Garibaldi, preceduto da quelli in Piazza Casa Pia, in via Canova, in via Legnano, ed ancor prima nello sgabuzzino sul terrazzo dell’abitazione del Prof. Luigi Carmona, ove aveva messo su il primo , rudimentale laboratorio a Messina), smontandone i vari pezzi con maniacale competenza, per ricomporli a modo suo in un impossibile assemblaggio artigianale, alla cui formazione non sempre rimaneva estranea una provvidenziale striscia di cerotto adesivo atto ad assicurare il prodotto di quell’incesto cannibalico trasformato in una chimerica combinazione, altrettanto improbabile in termini di prova sperimentale, quanto foriera di affetto prodigioso, quando dopo una nottata di lavoro si poteva ammirare il prodotto finale dello straordinario percorso in camera oscura, nello splendore del “fior di stampa” in bianco e nero formato quaranta per sessanta. D’altronde, cosa non ci si doveva attendere da quel geniale apprendista stregone del madgico mondo dell’alchimia, dell’ottica e della meccanica fotografica, aduso a piegare ai proprio voleri i mostri sacri della più avanzata tecnologia dell’epoca, quali i vari apparecchi Schneider, Linhof, Plaubel, sino alla … popolare Hasselbladt a dorso doppio? Ma il tempo faceva valere la sua fatale supremazia verso quell’eretico che aveva osato sfidarlo, consegnando alla memoria di istanti di vita altrimenti destinati all’ineluttabile oblio del passato. Ogni giorno stentava sempre più a respirare, e il tarlo dell’ affanno rodeva con irreversibile lentezza la roccia della sua vitalità: ma cercava sempre di mascherare questa sua condizione, per non creare alcun imbarazzo in chi gli stava accanto. Non glielo consentivano la sua discrezione, la sua nobiltà d’animo, e quella sua propensione ad una disponibilità nei confronti del prossimo, che ha conservato fino all’ultimo respiro. Si è sempre mostrato sensibile all’altrui sofferenza, cui andava incontro con compresione e generosità: ma negli ultimi anni della sua vita, nei momenti per lui più difficili, questa sua ineguagliabile magnanimità non fu ripagata da chi per tanto tempo aveva tratto beneficio e profitto dal suo innato altruismo. Soltanto dopo la sua scomparsa abbiamo apprezzato la cifra della sua personalità immensa. Siamo tutti colpevoli per non avergli rivolto, durante il suo cammino terreno, il dovuto rispetto per la sua opera, la cui eredità rivive nella innumerevole produzione della sua leggendaria attività, riconsegnandoci ogni giorno la sua indimenticabile presenza. Sono tornato ai piedi di quella scalinata, e lassù in alto la sagoma vivente non c’era più. Ma la traccia di quel lampo della sua fotocamera si era frantumata in uno sfarfallio di coriandoli luminosi, a ricomporre quel messaggio che una vulgata di dottrina popolare vuole attribuire a Confucio, e che Michelangelo Vizzini ci ha lasciato dall’alto della sua maestosa umanità:

“Rimani in cima alla montagna, e aspetta che venga su il sole. Un giorno ti spunteranno le ali”.

Giulio Santoro

vizzini fotografo messina


:: RACCONTO DI GUERRA

Sintesi delle vicissitudini patite dal Caporal Maggiore Michelangelo Vizzini durante la seconda guerra mondiale.

In seguito alla liberazione dai Russi, in Grecia, fui scambiato per una spia catturato e avviato alla fucilazione. Mi furono legate le mani dietro la schiena, e mi ordinarono di inginocchiarmi sentii la canna dell’arma appoggiarsi dietro la nuca e proprio nell’attimo in cui stava per partire il colpo si udirono le urla di un ufficiale che ordinava l’annullamento dell’esecuzione. Dunque solo all’ultimo istante e per un vero miracolo ne uscii vivo. Successivamente fui condotto da un campo all’altro, sempre in condizioni di schiavitù e al limite delle umane sopportazioni. Lavoravo come sanitario, trasportando con l’ambulanza feriti gravi o morti, mi era preclusa ogni sorta di libertà, e spesso le punizioni sfioravano la soglia della sopportabilità umana. Infatti, a causa di queste continue permanenze in campi che non possedevano minimemente i requisiti igienico-sanitari di base, e ai continui spostamenti anche notturni sulla neve e senza l’adeguato equipaggiamento, ho contratto seri problemi a carico dei bronchi che a tutt’oggi mi costringono a frequenti ricoveri e cure ospedaliere, che solo in via provvisoria alleviano il mio precario stato di salute. Il mio calvario inizia a settembre del 1943, e termina nello stesso mese dell’anno 1945. Dopo essere stato recluso nei seguenti campi di concentramento: Nasberg ( non ricordo bene come si scrive ma ricordo che si trovava a sud di Berlino ); Przemys’t; Lipsia; Lublino; Kostrzyn; Starakostantinova ( Ucraina ); anche per quanto riguarda quest’ultimo posto, non ricordo bene se si scriva così, ma ricordo perfettamente che fui condotto nello stesso casermaggio dove fu assediato Napoleone. Generalmente i nostri trasferimenti da un campo all’altro venivano effettuati a piedi, e le soste nei campi erano a volte anche brevi, tanto è vero che di qualche altro campo presso cui sono stato, non me ne ricordo il nome. Venivo obbligato a recuperare cadaveri e feriti molto gravi, per condurli al campo, e questo avveni- va quasi sempre sotto minaccia di morte e con le armi puntate addosso, e in molti casi addirittura con la forza. Ho smarrito quasi tutti i documenti relativi ai campi presso cui sono stato condotto, in quanto i nostri trasferimenti avvenivano in maniera repentina e spesso anche durante la notte. Ci veniva imposto di alzarci, metterci addosso quei pochi stracci di cui eravamo in possesso, e sotto la minaccia delle armi venivamo condotti verso destinazioni a noi sconosciute, affrontando la neve e il rigore delle gelide notti, con temperature che scendevano sempre abbondantemente al di sotto dello zero.


vizzini fotografo messina

:: INTERVISTA

Testimonianza del Caporalmaggiore Michelangelo Vizzini Relativa alla sua permanenza nei campi di concentramento durante la II Guerra Mondiale, rilasciata alla nipote Gaia.

D In quali campi di concentramento sei stato portato? Perché?

R Nasbeg a sud di Berlino, in Polonia e in Russia. Ricordo che ero molto giovane (avevo circa 20 anni) e mi ritrovai a partecipare alla seconda guerra mondiale senza conoscerne bene il motivo e perché dovevo indossare un’uniforme e ad impugnare un fucile. Successivamente fui trasferito: a Przemys’t; Lipsia; Lublino; Kostrzyn; Staracostantinova ( Ucraina ), non ricordo se si scrive esattamente così, però ricordo che proprio in quel casermaggio fu assediato Napoleone Bonaparte.

D Come era organizzata la vita quotidiana nel campo di concentramento di Nasbeg?

R Noi prigionieri stavamo tutti in delle baracche di legno sorvegliati dai soldati tedeschi. Trascorrevamo le giornate pregando o organizzando tornei di gioco delle carte, oppure mangiando quel poco cibo che ci veniva concesso.

D Cosa vi davano da mangiare?

R Pane tedesco, couscous e patate tutti i giorni, la pasta non ci veniva mai data.

D Quanto tempo sei rimasto in questo lager?

R Circa 18 mesi.

D Hai visto morire tanta gente?

R Purtroppo si, tante persone sono morte fucilate davanti ai miei occhi e tante altre sono morte nei forni crematori. Non si trattava solo di ebrei, come voi ragazzi studiate sui testi scolastici, ma anche di prigionieri ammalati i quali, invece che essere curati venivano tratti in inganno e condotti in questi luoghi di morte, con la finta promessa che in quei posti sarebbero state loro praticate le cure necessarie. Qui, dunque, i soldati invitavano i prigionieri malati a fare una doccia prima di essere sottoposti a visita medica, ma una volta dentro aperti i rubinetti, dai rosoni delle docce usciva gas mortale che li uccideva senza dargli scampo. Poi in un secondo tempo venivano trasferiti ai forni per essere cremati.

D Come hai fatto a resistere a tanto orrore?

R Cercavo di tenermi occupato. Sono riuscito infatti a farmi inserire nel gruppo che collaborava con i medici nella cura dei prigionieri malati e che comunque non erano destinati ne alla fucilazione, ne alla cremazione. In questo modo avevo la possibilità di uscire fuori dal campo sempre accompagnato dai soldati tedeschi. Io possedevo un permesso speciale chiamato: ausweis, il quale mi consentiva di potermi recare in città per acquistare generi alimentari e medicine utilizzando l’ambulanza, senza correre il rischio di essere intercettato dalle pattuglie di controllo che mi avrebbero certamente fucilato all’istante se non lo avessi avuto sempre con me. Piano piano, grazie al mio compito, sono riuscito a guadagnarmi la fiducia e in molti casi anche l’amicizia dei soldati tedeschi, ai quali regalavo sigarette che riuscivo a prendere in città, di conseguenza è ovvio che avendo instaurato questo clima di fiducia e di amicizia riuscivo a portare qualcosa in più da mangiare, che distribuivo regolarmente ai miei compagni di sventura sia Italiani che Francesi. Al campo cercavo di aiutare tutti, e tutti mi conoscevano. I tedeschi mi avevano soprannominato: zwergenhaft ( il nano inarrestabile ), poiché grazie alla mia statura mi spostavo con estrema rapidità da un punto all’altro del campo per non farmi individuare, e loro non riuscivano mai a capire dove fossi. Nonostante ciò venni scoperto per ben due volte con viveri e soldi ( marchi tedeschi ), però in entrambi i casi mi fu risparmiata la vita. Dunque posso anche ritenermi fortunato in quanto numerose volte sono stato sfiorato dalla morte in tutto il periodo della guerra.

D Ma se eravate nemici, di nazionalità diversa perché li aiutavi? E come mai anche con alcuni soldati tedeschi?

R Piccola mia devi sapere che questa guerra ( come tutte le altre ) è stata decisa dai potenti della terra, e noi poveri soldati: Italiani; Francesi; Tedeschi; e Americani eravamo lì a soffrire senza sapere il perché, e in molti casi eravamo anche costretti a spararci addosso solo perché vestivamo uniformi diverse. Così stando insieme per tanti mesi a stretto contatto poteva succedere che nei confronti dei nemici non si nutrisse il sentimento dell’odio, ma nascessero delle sincere amicizie. Anzi a proposito di ciò, ricordo che una volta ho prestato addirittura dei soldi ad un soldato tedesco per permettergli di comprare delle medicine al figlio malato, soldi che ovviamente non mi furono mai restituiti, ma io sono stato felice di poterlo aiutare. Tutto sommato io sono stato fortunato, perché sono sopravvissuto ed in diverse occasioni sono stato sul punto di essere fucilato, però non ho mai dimenticato: i morti, il rumore assordante delle bombe, che esplodevano spesso molto vicine a noi, delle mitragliatrici che vomitavano fuoco e piombo incessantemente, e soprattutto il senso di angoscia e di paura che ci accompagnavano giorno e notte costantemente senza mai darci un minuto di tregua. Voi giovani che siete il futuro, fate in modo che queste cose orrende non accadano mai più, perché le guerre non risolvono mai niente e lasciano soltanto una interminabile scia di sangue, distruzione, morte di vittime innocenti, e tanto tanto sgomento.

 

 vizzini tessera EI